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Il Piccolo Biko

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Il paese si chiamava San Luca al Monte e a dispetto del suo nome era immerso nella vasta e assolata pianura coltivata a pomodori, grano e olivi. San Luca era tutta una contraddizione perché non solo non c’era il monte ma non c’erano nemmeno i santi e le chiese. Era un nome totalmente inappropriato per quei luoghi malfamati abitati da gente crudele e da pregiudicati. Gli abitanti di un tempo erano contadini e si spaccavano la schiena nei campi, ma avevano il sangue bollente e l’atteggiamento irruento di chi è pronto a scannare il vicino di casa o di podere.

Si sa, dove non c’è civiltà non nasce l’arte, e infatti San Luca era simile più a un covo di briganti che agli incantevoli paesini del nostro Meridione, così ricchi d’arte e di tradizioni, frutto della nostra italica cultura e delle influenze longobarde, normanne, sveve, e saracene. A San Luca non erano mai giunti dominatori stranieri, né dal nord, né dal sud, e se mai qualcuno vi era giunto, evidentemente se n’era scappato subito.

A San Luca mancavano le autorità religiose da quando un giovane parroco provò a dir messa in un casolare semi diroccato. Il poveretto si ritrovò da solo a celebrare il rito davanti a 20 sedie sgangherate, impolverate e rigorosamente vuote. Solo un gatto attraversò il decrepito locale durante la Messa, e fu grazie a lui che il povero prete trovò una via d’uscita quando i paesani lo chiusero dentro il casolare sbarrando il portone. E ce l’avrebbero lasciato fino alla fine dei suoi giorni lì dentro, anzi i più esagitati l’avrebbero volentieri bruciato vivo. A San Luca mancava pure lo Stato. Il Sindaco era stato commissariato e il Commissario se n’era scappato per non essere bastonato e da quel giorno non era più tornato.

 

 

 

Il paese non mostrava nemmeno tracce remote di una cultura locale, insomma San Luca era un paese sterile, anzi morto, dove non nasceva nulla che fosse arte, cultura, legalità o civiltà, al punto che se oggi cercaste un rudere di una vecchia chiesa sconsacrata, ebbene non lo trovereste, e neppure trovereste le vestigia di un piccolo anfiteatro greco o romano, di una torre saracena, niente di niente.

Don Mimì Roscione a San Luca era il capo bastone. Amministrava la giustizia, faceva la Legge e la faceva rispettare, ma non con i Carabinieri, bensì con i suoi campieri che avevano facce da delinquenti appena fuggiti dalle italiche galere. Don Mimì teneva pure un gregge che godeva del diritto di libera circolazione e pure di devastazione, infatti, quando le sue capre s’arrampicavano sugli alberi per mangiarsi le olive, nessuno protestava se voleva evitare spedizioni punitive.

Don Fefè Corretti era un notabile potente. Malgrado l’ingannevole cognome era pericoloso come un serpente velenoso e chi s’era opposto al suo interesse le nerbate ancora portava impresse. Lo sapeva bene il conte di Chiaromonte a cui Don Fefè aveva sfilato il feudo più vasto, lasciandogli solo quello di Bivona e un paio di cicatrici sopra il petto che ancora offendono l’orgoglio del poveretto.

Di questi due campioni la gente del posto non era certo migliore, perché nel petto aveva lo stesso perfido cuore, in più soffriva d’invidia e aveva strane pretese come prendere il potere e governare il paese. I più tranquilli erano i vecchi che non avendo né fiato né forze si limitavano a bestemmiare e a mormorare: “A San Luca non ce so’ Santi perché Mimì e Fefè se li so’ magnati tutti quanti”, dicevano i vegliardi soffiando tra i pochi denti rimasti.

Arida la terra e aridi i cuori a San Luca vivi male e poi muori”, rispondevano puntuali le vecchiette come se recitassero un pagano rosario.

 

Fine del brano di valutazione

Formato: 10 x 14

Pagine: 46

Codice acquisto: 007

 

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