Questa storia si
svolge nel 1980 ma viene alla luce solo ora per la scoperta del
carteggio custodito inconsapevolmente dall’“Agenzia Investigativa
Orsini”, di Vittorio Orsini e Marta Della Vedova. Il carteggio è rimasto
sepolto nella soffitta dello stabile dove l’Agenzia aveva operato per
anni. Nessuno sapeva dell’esistenza di quelle carte lasciate in un
angolo inaccessibile, proprio lì dove il tetto quasi si congiunge al
pavimento. Non si sa chi le abbia lasciate né quando, fatto sta che
l’Agenzia Orsini decise un giorno di traslocare in un’altra sede e
incaricò la ditta presso la quale lavoravo come facchino, di svuotare la
soffitta.
Fu la mia curiosità a portarmi verso quel faldone impolverato finito
proprio nell’angolo meno accessibile della soffitta, lo tirai verso di
me afferrando uno dei tre laccetti che lo chiudevano, il fiocco si
sciolse con un piccolo sbuffo di polvere e fu proprio quel fatto che
m’indusse ad aprirlo e subito ne restai colpito.
Iniziò così il recupero di quei documenti e la scoperta di una storia
straordinaria che ora vi racconterò.
Capitolo 1
La storia prende le mosse da molto lontano, precisamente dal 1939 ma a
rileggere le carte di Orsini si prova ancora oggi un brivido di terrore
per quei fatti. Fu così che mi prese la curiosità di andare avanti nella
lettura e giorno dopo giorno divorai quei fogli ingialliti che uno dopo
l’altro rivedevano la luce dopo oltre 40 anni.
L’agenzia Orsini era composta di due sole persone: Vittorio Orsini e
Marta Della Vedova. Vittorio era stato in Polizia nella sua gioventù,
lui diceva pomposamente “nei ruoli investigativi della Polizia di
Stato”, forse perché questa formula faceva effetto sui suoi clienti e
riusciva più facilmente a farsi assegnare un incarico.
Bravo lo era veramente perché era pignolo e attento a tutti i dettagli.
Dall’esame del luogo di un delitto Orsini riportava almeno il doppio
delle informazioni rispetto agli altri investigatori, per questo era
odiato e apprezzato dai suoi ex colleghi della Polizia, alcuni dei quali
devono l’avanzamento di carriera proprio alla sua decisione di
congedarsi e mettersi in proprio, aprendo un’agenzia investigativa a
Roma in via Ripetta.
Marta della Vedova era una giovane studentessa del Liceo Artistico
Statale di via Ripetta alla quale un giorno rubarono il motorino mentre
lei era in aula. All’uscita, non trovandolo, fu presa dalla
disperazione, gridò, pianse e si agitò a tal punto che dovettero
intervenire a calmarla numerosi passanti, tra cui il giovane Vittorio.
La povera Marta era disperata al punto che Vittorio volle adoperarsi per
cercare di trovare i responsabili del furto. La cosa non fu difficile
grazie alle conoscenze nella Polizia di Stato e anche a un pizzico di
fortuna che però Vittorio non volle mai riconoscere. Fu così che il
motorino fu ritrovato e Vittorio divenne per Marta una specie di
Superman difensore delle povere ragazze indifese.
Si piacquero subito e divennero una coppia affiatata sia sul piano
sentimentale sia su quello lavorativo. Marta era bravissima a fare
ricerche negli archivi, aveva la capacità innata di incasellare
automaticamente tutto ciò che leggeva e riusciva a trovare riscontri e
correlazioni tra fatti che a prima vista sembravano assolutamente
estranei.
Nacque così l’Agenzia Investigativa Orsini & Della Vedova che per
brevità chiameremo solo ‘Orsini’ e che nel settore investigativo era
detta ‘degli Orsini’ o ‘degli Orsi’, con un pizzico di malevolenza.
Il Commissario Francesco Novara comandava il Commissariato Monteverde in
via Felice Cavallotti 3. Era un bravo e astuto funzionario che seppe
sfruttare la risonanza del primo caso non banale che gli si presentò
davanti. In questo momento non è più al Commissariato Monteverde perché
nel frattempo è stato promosso, ma nel 1980, un giorno gli arrivò la
segnalazione della morte di un antiquario….
Maggio 1980 - La strana morte dell’antiquario Barelli.
Titolarono così i giornali del 15 maggio 1980 pubblicati a Roma:
in una camera
d’albergo.
La Polizia
Morto un antiquario di San Remo
L’uomo aveva con sé un’agenda nera che ora è al vaglio degli
inquirenti.
La bottega orafa di
Andrea Fiori era situata in una piazzetta piccola piccola di Firenze:
piazza degli Ottaviani. Una banca occupava il lato migliore della piazza
con le proprie vetrine e insegne, mentre gli ingressi delle abitazioni e
le piccole botteghe si contendevano il poco spazio restante.
Andrea e Vittorio si abbracciarono come
due vecchi amici che non si vedevano da una vita. Andrea aveva circa 70
anni, era alto e ricurvo con occhiali pesanti inforcati sul naso, le sue
mani eleganti e affusolate erano
leggermente deformate dall’artrosi. Portava scolpiti nel fisico i
segni del suo lavoro di orafo, sempre ricurvo sul suo banchetto di legno
con la grande lampada a lente, la morsa da banco, il monocolo e gli
attrezzini per lavorare
oggetti piccolissimi. Era un toscano allegro, come tutti i toscani, e
aveva una risata fragorosa e coinvolgente.
“O Vittorio, ma tu allora vo’ fa il prezioso?”, gli disse Andrea tenendo
Vittorio per le braccia e squadrandolo ben bene, “e son cent’anni che te
non ti si vede!”
“Caro Andrea che piacere trovarti in splendida forma”, disse Vittorio,
poi, allungando elegantemente il braccio verso Marta, gliela presentò.
“Andrea ti presento mia moglie Marta. Marta, lui è il Maestro Andrea
Fiori uno dei migliori cesellatori e massimo esperto d’arte orafa in
Firenze”.
“Bum!”, Esclamò Andrea facendo accomodare i
suoi amici nel retrobottega dopo aver messo il cartellino ‘Chiuso’ sulla
porta.
“Fa’ vedere cosa tu m’ha portato ‘sta volta, o devo dire ‘sta
vorta come dite voi de Roma?”
Vittorio tirò fuori un mazzetto di fotografie dei gioielli e le
porse ad Andrea.
“Abbiamo rinvenuto questo materiale in una cassetta di sicurezza, tu
cosa sai dirci con la tua esperienza?”.
“Sono l’ORO degli EBREI!”
Vittorio e Marta si guardarono stupefatti, poi si voltarono verso
Andrea.
“Ossia?”
“Ossia sono gioielli frutto sicuramente di spoliazioni dell’epoca
bellica. Quando gli Ebrei furono perseguitati per l’introduzione delle
leggi razziali, in molti dovettero lasciare le loro case abbandonando
tutto ciò che non era trasportabile. Nascosero addosso solo i gioielli e
il denaro e con una valigia ciascuno partirono cercando rifugio in altri
Paesi, come
I volti di Marta e Vittorio si fecero improvvisamente tristi. Da quando
erano partiti da Roma stavano vivendo un’emozione dietro l’altra ed
erano già abbastanza scossi emotivamente, ora stavano per essere
risucchiati dagli orrori della guerra. Seduti vicini sulle loro sedie di
fine ottocento, Marta e Vittorio si presero per mano e seguirono il
racconto di Andrea.
“Noi esperti d’arte orafa sappiamo datare i
gioielli in base al tenore dell’oro, alla tecnica di lavorazione, al
taglio delle pietre, al disegno, ai soggetti. Quelli che mi avete fatto
vedere sono tutti gioielli risalenti al periodo pre bellico. Non ce n’è
uno fatto negli ultimi 40 anni e questo mi fa pensare che siano appunto
l’oro rubato agli Ebrei in fuga”.
“Da dove provengono queste gioie?”, chiese
Andrea.
“Da Sanremo”.
“Sanremo, Sanremo…”, mormorò pensoso Andrea con gli occhi al cielo come
a cercare un’ispirazione. “Sanremo in provincia di Imperia è abbastanza
vicina alla Francia, potrebbe essere passato da lì un flusso di
perseguitati diretti in Francia via Menton. So che sono stati
organizzati anche dei passaggi via mare per portare gli esuli al sicuro.
Altro non so dirvi se non che di questi gioielli ne saltano fuori spesso
e sempre in un certo numero. Sono i figli dei razziatori che ereditano
il bottino dei padri e vogliono convertirlo in denaro per dividerselo.”
“Spiegati meglio”, chiese Vittorio.
“Dovete sapere che i delinquenti che hanno depredato gli averi dei
fuggitivi, dopo la guerra si guardarono bene dal mostrare i loro
illeciti tesori. Li tennero gelosamente nascosti in casa o in cassette
di sicurezza e non ne parlarono neanche in famiglia, perché non
avrebbero saputo come giustificare il loro possesso. Quando avevano
bisogno di soldi si limitavano a vendere un pezzo del loro bottino
recandosi in una città dove non erano conosciuti. Ne ho visti tanti che
venivano da me per far valutare un orecchino con brillante, una collana
d’oro con smeraldi e altri bei gioielli. Io li inquadravo subito perché
il loro aspetto e portamento li tradiva sempre. Quando mai uno con la
faccia da contadino o da montanaro può venire a raccontarmi che il
collier che vuole vendere lo ha ereditato dalla nonna? Ma scherziamo? So
ben io quali gioiellucci
compravano i contadini per fare i regali di matrimonio o di comunione ai
loro parenti. I preziosi che
volevano vendere, invece, erano gioielli costosi, di certo appartenuti a
persone agiate e quindi di sicura provenienza furtiva. Come dicevo, per
20 o 30 anni, dopo la guerra, abbiamo assistito a questo fenomeno di
lenta ricomparsa, un gioiello alla volta; poi è cominciata l’ondata di
piena”.
“Come Mai?”, chiese Vittorio.