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Ricordo che noi ragazzini facevamo lunghe passeggiate per il corso, e
così facevano i nostri genitori, gli zii, tutti i paesani e gli emigrati
tornati al paese per le vacanze. I grandi chiacchieravano, noi piccoli
giocavamo. La mamma ci aveva raccomandato che quando il nonno toglieva
le sedie davanti al negozio, era ora di tornare a casa. Questa era una
grande comodità che avevamo solo noi, perché via Filangieri era visibile
dal corso e quindi, ad ogni passaggio, davamo una controllata alle
sedie. Quando sparivano tornavamo a casa non senza rammarichi, perché
dovevamo smettere di giocare.
Andavamo di corsa a casa, al civico 8, dove c’erano tre gradini esterni
di una bella pietra grigia granigliata. Io ero il più alto allora salivo
i gradini, mi alzavo sulle punte e toccavo il batacchio d’ottone quel
tanto che bastava per farlo battere.
Dopo poco una testa si affacciava da un finestrino al primo piano, un
finestrino così piccolo che solo la testa vi passava, era la mamma o la
nonna Elvira XE "D’Orio Elvira" . Dopo aver visto chi era tiravano una
sottile catena che, passando attraverso un condotto nel muro, arrivava
fino al portone e ne azionava la serratura. Il portone si apriva e noi
ragazzini di corsa ci lanciavamo su per le scale.
I gradini erano molto alti e noi eravamo ancora piccoli ma pieni di
energie, anche a fine giornata. Lungo la ripida scala c’era un corrimano
di ferro con i pomi d’ottone, allora noi bambini ci aiutavamo nel salire
aggrappandoci e tirandoci su finché un giorno riuscimmo a staccarlo dal
muro. Tragedia! Pensai, ora ci sgridano. Invece anche in questo caso i
nonni non fecero una piega. Certo la mamma ci rimproverò per insegnarci
a fare attenzione e non rompere le cose, ma i nonni erano davvero
pazienti e buoni. Il pranzo era al secondo piano, su in cucina, dove
c’era anche un bel terrazzo. Ricordo i profumi della cucina della nonna,
l’aroma del sugo che sapeva di pomodoro e carne, sapori e profumi
meravigliosi che oggi non ritrovo più, se non in qualche angolo del Sud
rimasto incontaminato.
La cucina era alla fine di una ripida scala e per non far ruzzolare giù
noi ragazzini, o qualche sbadato, c’era una porta che si chiudeva dopo
essere entrati.
C’era una stufa, o cucina “economica”, con un tubo grigio che s’infilava
in un buco nel muro: il camino. C’era una dispensa chiusa da una porta
di legno e un’altra con la porta a vetri. Quanta curiosità destavano
questi ripostigli dove noi ragazzini ficcavamo il naso curiosi,
contravvenendo spesso agli ordini materni. C’erano solo pentole,
padelle, mestoli, setacci, coperchi, imbuti, passini e forchettoni ma
per noi ragazzini era come esplorare un mondo nuovo.
Dopo il pranzo si andava a dormire e questa era una tragedia perché a
Serra non si usciva mai prima delle 19 e per noi bambini era uno
strazio. Dopo cena invece si riusciva e si passeggiava per il corso fino
a mezzanotte e oltre, almeno i grandi.
A merenda ricordo che la nonna Elvira apriva una credenza nella
stanzetta di fianco alla cucina, apriva una scatola di metallo e tirava
fuori due mostaccioli. Erano due biscotti tipici dalla forma romboidale.
Quelli della nonna però erano insuperabili e lo sono ancora, mai, da
nessun’altra parte ho più ritrovato qualcosa che somigliasse ai
mostaccioli della nonna. Erano compatti e anche un po’ duri, erano fatti
con mosto cotto, farina e cioccolato, ma non erano come quelli di
Scanno, ad esempio, in cui prevale la farina e sono piuttosto leggeri.
Quelli di nonna erano pesanti, compatti e dal sapore intenso di
cioccolato e mosto. Assolutamente ineguagliati.
Fine del brano di valutazione