Il mio mondo

50 anni di studio e passione

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Ricordo che noi ragazzini facevamo lunghe passeggiate per il corso, e così facevano i nostri genitori, gli zii, tutti i paesani e gli emigrati tornati al paese per le vacanze. I grandi chiacchieravano, noi piccoli giocavamo. La mamma ci aveva raccomandato che quando il nonno toglieva le sedie davanti al negozio, era ora di tornare a casa. Questa era una grande comodità che avevamo solo noi, perché via Filangieri era visibile dal corso e quindi, ad ogni passaggio, davamo una controllata alle sedie. Quando sparivano tornavamo a casa non senza rammarichi, perché dovevamo smettere di giocare.
Andavamo di corsa a casa, al civico 8, dove c’erano tre gradini esterni di una bella pietra grigia granigliata. Io ero il più alto allora salivo i gradini, mi alzavo sulle punte e toccavo il batacchio d’ottone quel tanto che bastava per farlo battere.
Dopo poco una testa si affacciava da un finestrino al primo piano, un finestrino così piccolo che solo la testa vi passava, era la mamma o la nonna Elvira XE "D’Orio Elvira" . Dopo aver visto chi era tiravano una sottile catena che, passando attraverso un condotto nel muro, arrivava fino al portone e ne azionava la serratura. Il portone si apriva e noi ragazzini  di corsa ci lanciavamo su per le scale.
I gradini erano molto alti e noi eravamo ancora piccoli ma pieni di energie, anche a fine giornata. Lungo la ripida scala c’era un corrimano di ferro con i pomi d’ottone, allora noi bambini ci aiutavamo nel salire aggrappandoci e tirandoci su finché un giorno riuscimmo a staccarlo dal muro. Tragedia! Pensai, ora ci sgridano. Invece anche in questo caso i nonni non fecero una piega. Certo la mamma ci rimproverò per insegnarci a fare attenzione e non rompere le cose, ma i nonni erano davvero pazienti e buoni. Il pranzo era al secondo piano, su in cucina, dove c’era anche un bel terrazzo. Ricordo i profumi della cucina della nonna, l’aroma del sugo che sapeva di pomodoro e carne, sapori e profumi meravigliosi che oggi non ritrovo più, se non in qualche angolo del Sud rimasto incontaminato.

 

Si mangiava spesso la pasta al sugo, ricordo che erano le mezzanelle (papà le adorava) oppure le reginelle, una pasta a fettuccia coi bordi ondulati fatti apposta per schizzare il sugo.
La cucina era alla fine di una ripida scala e per non far ruzzolare giù noi ragazzini, o qualche sbadato, c’era una porta che si chiudeva dopo essere entrati.
C’era una stufa, o cucina “economica”, con un tubo grigio che s’infilava in un buco nel muro: il camino. C’era una dispensa chiusa da una porta di legno e un’altra con la porta a vetri. Quanta curiosità destavano questi ripostigli dove noi ragazzini ficcavamo il naso curiosi, contravvenendo spesso agli ordini materni. C’erano solo pentole, padelle, mestoli, setacci, coperchi, imbuti, passini e forchettoni ma per noi ragazzini era come esplorare un mondo nuovo.
Dopo il pranzo si andava a dormire e questa era una tragedia perché a Serra non si usciva mai prima delle 19 e per noi bambini era uno strazio. Dopo cena invece si riusciva e si passeggiava per il corso fino a mezzanotte e oltre, almeno i grandi.
A merenda ricordo che la nonna Elvira  apriva una credenza nella stanzetta di fianco alla cucina, apriva una scatola di metallo e tirava fuori due mostaccioli. Erano due biscotti tipici dalla forma romboidale. Quelli della nonna però erano insuperabili e lo sono ancora, mai, da nessun’altra parte ho più ritrovato qualcosa che somigliasse ai mostaccioli della nonna. Erano compatti e anche un po’ duri, erano fatti con mosto cotto, farina e cioccolato, ma non erano come quelli di Scanno, ad esempio, in cui prevale la farina e sono piuttosto leggeri. Quelli di nonna erano pesanti, compatti e dal sapore intenso di cioccolato e mosto. Assolutamente ineguagliati.

 

Fine del brano di valutazione

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